“Benedetta tu fra le donne”

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Quarta Domenica di Avvento, Anno C – 22 dicembre 2018

Dal vangelo secondo Luca (Lc 1,39-45).

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Due mondi si incontrano: Elisabetta, l’anziana moglie del sacerdote Zaccaria, rappresenta la speranza di Israele, ma anche quella di un mondo ormai vecchio, percorso però dai fermenti dell’attesa; pochi anni prima, Virgilio aveva scritto nella sua Quarta Ecloga: “ E’ giunta l’ultima età dell’oracolo cumano/ nasce di nuovo il grande ordine dei secoli./ Già torna la Vergine e torna il regno di Saturno,/ già la novella prole discende dall’alto del cielo”; e questo avviene grazie alla nascita di un bimbo, al quale il poeta rivolge l’invito, con uno dei versi più belli della letteratura mondiale: “Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem”, “comincia, o bambinello, a riconoscere la mamma, sorridendole”.
Maria è questo mondo nuovo, porta in sé l’Atteso e l’incontro, proprio per questo, avviene nella gioia. Il paradosso è, che tutto questo accade non nel palazzo del console Asinio Pollione, ma in un angolo remoto dell’immenso impero, senza nessuna apparenza esteriore, in un gesto di ordinaria vita quotidiana: una visita, un saluto; è il carattere “scandaloso” dell’incarnazione di Dio nella storia dell’uomo, di ogni uomo.

Consideriamo però il significato di quel saluto. E’ facile immaginare che la parola che Maria ha usato sia la stessa che ancor oggi pronunziano gli Israeliti: “Shalòm”, cioè “pace”. Non si tratta di una pace qualsiasi. In Abramo, Dio aveva voluto dare inizio a una nuova alleanza con l’uomo: il Dio philànthropos non si rassegnava alla perdita della sua creatura. I profeti hanno rappresentato questa alleanza come quella di due sposi, un amore appassionato e per sempre. Ma la sposa si è rivelata infedele, ha seguito degli amanti, gli idoli, che rappresentano ancora oggi le seduzioni del potere, del denaro, delle voglie egoiste. Lo sposo si arrabbia, ha la tentazione di chiudere, di fare divorzio. Ma “io sono Dio e non uomo, e non amo distruggere”, dice il profeta Osea (Os 11,9); e Isaia aggiunge: “Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto ti ha richiamata il Signore. Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù?” (Is 54,6). Ora, il saluto di Maria trasmette a Elisabetta e a Giovanni, chiuso nel suo grembo, la pace di Dio col suo popolo: quel bimbo, che Maria porta in seno, è la pace di Dio, quella che gli angeli annunzieranno nella notte della nascita. Tutto ricomincia, tutto può ricominciare.

Nello stesso tempo, ci vien posta una domanda: che cosa è veramente efficace, quali sono i criteri per valutare le azioni umane? L’efficacia del saluto di Maria dipende dalla sua storia interiore, da quel “sì” pronunciato all’annuncio dell’angelo, dalla fede di lei, vera figlia di Abramo, nelle promesse di Dio. La sociologia e la politica considerano inevitabilmente i fatti nella loro esteriorità. Dovremmo forse incominciare a pensare che la vera storia avviene nei cuori umani:come la guerra è il risultato della somma di sguardi violenti e egoisti dai quali non ci si è purificati, così la speranza per l’uomo sorge da tanti atti nascosti di fedeltà, di pazienza, di bontà. Nel cammino verso il Natale, il vangelo di questa domenica ci esorta a rientrare in noi stessi, a purificare il nostro sguardo interiore.

Per la Chiesa, la figura di Maria rappresenta una straordinaria provocazione. Maria non scrive libri, non compie opere straordinarie di evangelizzazione, non predica né celebra liturgie, non dà vita a istituzioni benefiche. Ella, semplicemente, compie un’ordinaria opera di carità, la visita a una parente che ha bisogno di aiuto, e le rivolge il saluto. Eppure, la ricchezza interiore di questa giovane donna è tale, che proprio grazie a questi atti così ordinari inizia un mondo nuovo. Anche per la Chiesa il Natale è l’occasione per liberarsi da tante ansie e ritrovare l’umile fiducia in Colui che le chiede soltanto fede e carità.

Questa pagina del Vangelo ci ricorda che una delle “opere di misericordia corporali”, è: “Visitare gli infermi”. Mi viene in mente anche che la tipologia di “famiglia” più diffusa nella nostra città è quella con un solo membro, il che vuol dire che tante persone, soprattutto anziane, vivono da sole. Era consuetudine del bravo parroco visitare gli ammalati e gli anziani; io non ci riesco se non in minima parte. Questo è un problema serio per la Chiesa, perché rischia di perdere il suo volto materno e la prossimità alla sofferenza. Per fortuna, ormai tutte le parrocchie dispongono di “ministri straordinari della Comunione”, cioè di uomini e donne che possono portare l’Eucaristia a chi non riesce a muoversi da casa. Mi pare che vi sia una grande somiglianza tra Maria che porta Gesù nel suo grembo e queste persone che, in una scatolina di metallo, portano il Corpo Eucaristico. Frequentando poi l’ospedale, vedo tanti famigliari presenti presso il letto dei loro ammalati, vedo spesso tanta dolcezza e delicatezza. Ognuno di questi gesti è un filo che contribuisce a costruire il tessuto di una comunità, sia di quella ecclesiale che di quella civile. Il Natale ci riporta ai gesti quotidiani, ordinari, alla loro straordinaria importanza “politica”, cioè per la pòlis, per il bene comune. Teniamo presente che ciascuno di noi viene “visitato”, nel senso che tante persone di fatto si mettono al nostro servizio, ci fanno dei piaceri, ci assistono nelle nostre necessità. Forse, dovremmo imparare a dire qualche “grazie” di più.