Alluvione del fiume Panaro, tra le cause le tane degli animali e il materiale con cui fu costruito l’argine

alluvione fiume Panaro Modena

C’è un insieme di concause all’origine della breccia che si è aperta il 6 dicembre scorso nel tratto di argine del fiume Panaro a Gaggio di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, e che ha provocato la successiva alluvione che ha interessato alcune zone del Modenese. A partire dalle circostanze ambientali: un volume di piena con caratteri di assoluta eccezionalità, il maggiore degli ultimi vent’anni, causato dal livello persistente di precipitazioni cadute in due giorni consecutivi – il più alto dal 1942 – e dal concomitante scioglimento della neve in Appennino; fenomeni che hanno incrementato la saturazione del suolo e messo sotto pressione un argine la cui costruzione risale alla fine dell’Ottocento.

A tracciare il quadro dell’accaduto, dopo poco più di due mesi di lavoro, è stata la commissione scientifica speciale incaricata dalla Regione Emilia-Romagna e composta da un pool qualificato di esperti presieduti dal professor Giovanni Menduni del Dipartimento di ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano e composta anche dal tecnologo del Dipartimento bio dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) Roberto Cocchi, dal comandante provinciale dei vigili del fuoco di Ravenna Luca Manselli e da Paolo Simonini, professore di geotecnica presso il Dipartimento di ingegneria civile, edile e ambientale dell’Università di Padova.

Con la preziosa collaborazione dei Vigili del Fuoco, la commissione ha effettuato una ricostruzione delle aree allagate attraverso l’analisi comparata di immagini fotografiche e satellitari, le testimonianze di persone residenti, le notizie apparse sui mezzi di informazione e una serie di indagini geotecniche e geofisiche (tra cui sondaggi a carotaggio continuo, con il prelievo di undici campioni e prove di laboratorio sulla qualità dei materiali, analisi dilatometriche e prove con pieziometro sismico e piezocono).

È stata quindi analizzata la catena delle circostanze che hanno determinato il dissesto individuando le possibili cause. Mercoledì 3 marzo l’approfondimento è stato presentato alla Commissione assembleare ambiente della Regione, alla quale ha partecipato anche l’assessora regionale alla difesa del suolo Irene Priolo.

Gli esperti hanno evidenziato il ruolo della cassa di espansione, utilizzata al massimo delle capacità di invaso, escludendo dunque ogni coinvolgimento della sua gestione nel collasso dell’argine, ma anzi mettendo in luce il prezioso contributo per la gestione complessiva dell’evento.

“Non siamo in presenza di una pistola fumante come origine evidente della rotta, come fu per il Secchia nel 2014, ma di un insieme di concause”, ha spiegato il professor Menduni: “Fondamentali, per comprendere quanto accaduto, si sono rivelate le indagini sul sito della rotta e nelle sue vicinanze: l’argine era di per sé stabile, non in imminente stato di pericolo. È verosimile che le disomogeneità della sua struttura, insieme a una cavità, probabilmente una tana di animali relitta all’interno, abbiano permesso all’acqua di penetrare (tecnicamente “punzonare” l’argine) fino a determinarne il crollo”.

Il dissesto, dunque, non sarebbe avvenuto per ragioni di sormonto o di mancata manutenzione. Gli esperti hanno invece evidenziato più concause, a partire dal ruolo del materiale eterogeneo – risalente a fine Ottocento – utilizzato nella costruzione dell’argine stesso, al cui interno sono stati rinvenuti mattoni, laterizi e porzioni di conglomerato di calce.

Sono state individuate inoltre anche ceppaie riconducibili a un infestante particolarmente diffuso in zona, l’Arundo donax, rimaste dentro il corpo arginale in seguito alle attività di taglio e rimozione definitiva svolte tra il 2012 e il 2014. Nel tempo si sono probabilmente decomposte favorendo il passaggio lento (la cosiddetta “percolazione”) delle acque. A ciò si aggiunge la possibilità di tane occulte di animali fossori, alla luce di alcuni rinvenimenti osservati in prossimità del collasso.

“Ringrazio gli esperti che nelle settimane passate hanno lavorato intensamente per fare luce sulle cause di quanto accaduto”, ha replicato l’assessora Priolo: “Si tratta di una risposta che avevamo promesso alla popolazione e che era doveroso fornire. Ci viene consegnato un bagaglio di conoscenze fondamentali su cui fondare le azioni future di sicurezza del territorio”.

“Ho già concordato con la commissione scientifica e le strutture tecniche regionali un incontro fissato per la prossima settimana al fine di mettere in campo strategie aggiuntive a quelle finora adottate. Questo in aggiunta alle opere per il nodo idraulico di Modena, già candidate nell’ambito del Recovery Plan e che potranno avere attuazione entro il 2026, se finanziate. Per il completamento del sistema delle casse di espansione, inoltre, siamo al lavoro per ottenere l’approvazione di una legge speciale, perché questo territorio ha bisogno di risorse straordinarie per avere le risposte che da tempo attende”.