C’è una moda, in questi tempi di comunicazione frenetica, a colpire la scuola italiana con accuse rapide, perfette per i social ma fragili come carta velina quando si entra nel merito. L’ultima, assai rumorosa, è venuta da Marwa Mahmoud, che ha rimproverato la scuola pubblica di non fare abbastanza per il plurilinguismo, spingendosi fino a invocare una “decolonizzazione delle cartine mentali e fisiche” degli insegnanti, verosimilmente, e degli umani tutti.
Sarebbe facile rispondere con la stessa durezza, ma non servirebbe. Serve invece un po’ di realtà. La scuola italiana – soprattutto quella che vive nelle periferie urbane e nelle aree a forte immigrazione – è oggi il più grande laboratorio sociale del Paese. Ogni mattina migliaia di insegnanti entrano in classe e incontrano ragazzi arrivati da mezzo mondo: molti non parlano l’italiano, altri lo comprendono appena, alcuni portano storie difficili, famiglie spezzate, paure che non fanno rumore. Eppure sono lì. E qualcuno, davanti a loro, prova a costruire futuro. A Reggio Emilia, patria di Loris Malaguzzi e di Carlina Rinaldi, lo sappiamo bene.
Chi lavora nella scuola non è pagato per essere eroe, ma lo diventa: perché traduce, ascolta, media, si inventa strumenti didattici che nessuna circolare ha previsto. È il docente italiano il primo vero presidio dell’integrazione, mentre la politica discute a distanza e la burocrazia accumula carte. Chiamarli “coloniali” è un paradosso amaro: questi insegnanti sono esattamente il contrario. Ogni giorno insegnano che l’Italia può essere casa anche per chi è arrivato da lontano. Ed è curioso – e un po’ ingeneroso – rimproverare loro di non coltivare il plurilinguismo. In tante classi, gli alfabeti convivono come in poche altre scuole europee; in tante aule si parla in arabo, spagnolo, urdu, cinese, e poi si prova a costruire una lingua comune. Che non è un’imposizione culturale, ma un ponte civile. Perché senza una lingua condivisa non esiste convivenza, non esiste uguaglianza, non esiste cittadinanza.
L’Italia non è un paese perfetto – nessuno lo è – ma la sua scuola è figlia di una storia che non merita semplificazioni. Parlare di “pensiero coloniale” in senso generico e accusatorio significa dimenticare ciò che l’Europa è stata e, soprattutto, ciò che ha voluto diventare: la terra dei Greci e dei Latini, della filosofia, dell’umanesimo, dell’Illuminismo che ha fondato i diritti universali. Contestare questa eredità significa anche aprire spazio a quelle ideologie che negano libertà fondamentali, a partire da quelle delle donne e dei più giovani. Si può discutere di tutto. Si può migliorare. Ma sarebbe utile partire dai fatti: un insegnante italiano oggi non è un guardiano del passato, è un mediatore nel presente. Non costruisce muri: cerca ogni giorno di abbatterli.
Non servono etichette rumorose. Serve riconoscere il lavoro che c’è dietro una classe in silenzio che prova a imparare la stessa lingua. Basta osservarlo per capire che la realtà è molto meno violenta degli slogan, e molto più seria.







Buongiorno, sono anche io rimasto colpito sfavorevolmente dalle parole dell’ Assessore. La scuola ha a mio parere vari problemi che la presenza di alunni provenienti da tanti Paesi accentua. C’ è una inadeguatezza di risorse in vari sensi. Mi limito a suggerire un metodo: partire dall’ analisi dell’ abbandono scolastico e soprattutto del percorso complessivo di studio (scuola superiore si/no, che tipo di scuola, università si/no), differenziato per censo, zona di Reggio, provenienza della famiglia. Ipotizzo che l’ esito mostrerebbe non tanto una scuola coloniale quanto una scuola classista, probabilmente adesso mai come negli ultimi 50 anni