Le vittorie di Tabaròun

In federazione era per tutti "Tabaròun", per via del cappottone che indossava nelle gelide riunioni invernali in via Toschi, alle quali arrivava puntuale in bicicletta. Il tabarro vero e proprio lo aveva portato a lungo, ereditato in casa, ma nel tempo il soprannome era sopravvissuto alla lana inevitabilmente lisa, e non cessò di accompagnarlo ben oltre la caduta del comunismo, il "chi sa parli", il nuovo secolo.
 
Pochi sono i dirigenti del Pci emiliano destinati a farsi ricordare. Montanari è tra questi.
 
Ora, in mortem, verrà inondato di inevitabile retorica che ne deformerà il ricordo. Ma un ritratto decontaminato dalle liturgie ne racconterà i tratti tormentati di una vita spesa in salita, spesso affaticata da ampie dosi di maldicenza e talvolta di invidia cui Otello non si arrese mai. Combatté le sue battaglie, soprattutto sul fronte interno, e le vinse. Tutte.
 
Venne accusato di stalinismo, poi di compiacenza con i poteri avversari, di coltivare frequentazioni nel mondo ecclesiastico al di fuori dei dettami del partito, di opportunismo. Vi fu perfino chi per anni ne dileggiò la zoppia conseguente a un episodio durante la lotta partigiana.
 
Peggio ancora, venne accusato di alto tradimento quando nell’agosto del 1990 lanciò l’appello passato alla storia come "Chi sa, parli", capace di sollevare una gigantesca polemica nella sinistra italiana e di fare luce su alcuni tra i numerosi tragici eventi che segnarono le vendette e le rese dei conti nel dopoguerra emiliano.
 
Fu sbeffeggiato da giornalisti celebri poi passati armi e bagagli sul fronte opposto (Giampaolo Pansa, che lo definì sull’Espresso "fesso d’oro), scomunicato dall’Anpi, accusato di intelligenza col nemico. Non cedette mai – e i fatti gli diedero ragione, e vinse una partita storica: quella sulla memoria rivelata nella zona d’ombra che affiancò la gloriosa lotta di liberazione.
 
Vinse, Montanari, anche la più provinciale delle battaglie: quella sul Primo Tricolore, la cui paternità reggiana Craxi allora premier vagheggiò di trasferire storicamente a Milano, alla metà degli anni Ottanta. Senza la testardaggine di Montanari, il suo gusto insopportabile per la retorica, il noiosissimo culto per le istituzioni in quanto tali, le parate, le buffonate, i toni e i modi: ebbene, nonostante tutto ciò, egli vinse. Il sette gennaio ha portato a Reggio presidenti della Repubblica e massime cariche dello Stato, ha obbligato la città ad allestire un museo dei cui contenuti qualitativi francamente non ci si può vantare, eppure ha vinto. Perché ancora oggi più di allora ogni sette gennaio il Tricolore sventola in queste piazze deserte per freddo e per noia, ma sventola in nome di quel poco che ancora ci unisce, o unisce almeno un’identità nazionale senza la quale ragionevolmente saremmo perduti.
 
Riabilitato dall’Anpi con venticinque anni di ritardo, incassate le scuse di Pansa con  quindici anni di ritardo, "Tabaròun" lascia segni destinati a durare a lungo nella storia di questa città più di quanto nel momento del congedo possa apparire. Non fu un genio, un eroe, un mito. Ma seppe intrecciare l’alto e il basso, il quotidiano e lo storico, con solidi nodi che gli sopravviveranno.