Il ritorno di Paul Mazzolini, alias Gazebo

E’ un grande ritorno quello di Paul Mazzolini, alias Gazebo. Dopo otto album in studio, un doppio live, innumerevoli compilation e a distanza di tre anni dall’ultima fatica, Reset, il poliglotta girovago di I like Chopin, Dolce vita, Masterpiece – cantante di origini libanesi e autore di brani che hanno fatto la storia degli anni ’80 – esce con un album che ripropone alcuni classici della musica dance made in Italy che ha spopolato in tutto il mondo in quel decennio, con l’aggiunta di una chicca: un brano inedito dedicato a Maria Callas, La Divina, in cui per la prima volta Gazebo si cimenta con la lingua italiana.

 
Italo By Numbers, questo il titolo della raccolta, propone diciassette classici riempipista, che come descrive l’artista, rappresentano <<una perfetta macchina del tempo, che vi permetterà, come nel film di Zemeckis, di ritornare al futuro, dove la musica era musica e le persone si incontravano dal vero>>.
 
“By Numbers”, perché aldilà dei sentimenti parlano i numeri e sebbene si tratti di una selezioni di pezzi tra i suoi preferiti, si parla pur sempre e prima di tutto di teste di serie, al vertice delle charts internazionali.
 
Ci sono Passion delle Flirts, firmato da Bobby Orlando, il primo produttore dei Pet Shop Boys; Easy Lady di Spagna; Self Control, del primo Raf; tormentoni come Tarzan Boy, Happy Children, o ancora People from Ibiza di Sandy Marton, oltre a diversi tuoi successi.

Hai lasciato indietro qualcosa Paul?
<<Un brano che avrei voluto inserire e alla fine non ho messo, ad esempio, è Maybe one day, dei The Creatures. Ma se funziona Italo by Numbers, non è detto che un giorno non mi tolga lo sfizio di fare un album di cover anni ’80 ma di pezzi totalmente sconosciuti>>.
 
C’è nostalgia in tutto questo? Hai sempre prodotto album audaci, che come hai ammesso tu stesso erano spesso contro tendenza rispetto al mercato. Rifare canzoni che hanno segnato un’epoca, quindi, é stato un gioco, uno sfizio, una scommessa? 
 
<<Tutte le tre le cose insieme. Non era preventivato e facendo peraltro tutto da solo, solitamente mi concedo almeno quattro anni di pausa. E’ capitato, però, che ascoltando pezzi di colleghi, pur amandoli così com’erano stati concepiti, pensassi a come li avrei fatti se fossero stati miei. A casa ho ancora tutti gli strumenti, tastiere e batteria elettronica di allora, e sono partito così, per divertimento. Mi sono proiettato trentacinque anni indietro, senza la volontà di fare un remix, volendo suonare con gli stessi strumenti, ma registrando con la tecnologia di oggi. Il ricordo di quegli anni è sempre vivo in coloro che li hanno vissuti e oggi più che mai c’è la voglia di lasciarsi andare alla leggerezza e al divertimento della musica di quel decennio, così ho deciso di concretizzarlo. Una sorta di pausa ludica tra un disco e l’altro>>.
 
Anche le icone hanno dei miti; i tuoi quali sono stati?
<<I miei risalgono agli anni ’60, da Bob Dylan ai Beatles. Tutti quelli della mia adolescenza, insomma: Peter Gabriel, Bryan Ferry, Simon & Garfulken…>>
Di aneddoti ce ne saranno a bizzeffe, immagino, ma qualcosa che non dimenticherai mai del tuo esordio?
<<Un ricordo simpatico è di quando mi chiamarono come ospite ad una trasmissione televisiva in Germania. Era un grande show, una specie di Festivalbar tedesco. Io all’epoca vendevo le enciclopedie porta a porta, tanto per farti capire, e tra i personaggi che mi piacevano molto e che consideravo inarrivabili c’era Elton John. Arrivai in Germania, in questo palazzetto, pronto per essere catapultato sul palco, emozionatissimo. Salendo i gradini incrocio il cantante che ha appena finito di esibirsi e che, pollice insù, mi dice: ehy man, good luck. Ed era incredibilmente lui>>.
 
Quanto le origini hanno influenzato le tue scelte successive? 
 
<<Sono state fondamentali. Mio padre era un diplomatico e ogni tre, quattro anni eravamo costretti a cambiare Paese. Ho sempre frequentato scuole anglosassoni e forse, in funzione al periodo formativo, l’esperienza più importante è stata quella vissuta tra gli 8 e gli 11 anni, quando vivevamo in Danimarca. Frequentavo una scuola hippy a Copenaghen, che credo esista ancora. Eravamo in pieno ’68: non c’erano classi vere e proprie, non si faceva distinzione di sesso, le aule erano piene di strumenti e anche di animali. Tutti suonavano le chitarre appoggiate a terra e una delle prime cose che ho fatto, quindi, è stato prenderne una e cominciare a suonare i miei miti, appunto. Sono stato profondamente influenzato dalla musica progressive, che è un incrocio di vari generi, e questo mi ha portato a studiare tanto, ad approcciare alla musica e ai testi in maniera differente. Non a caso, pur facendo musica dance, poi, ho sempre avuto storie da raccontare ed evitato di sprecare l’occasione per dare qualcosa in più al testo>>.
 
Sei stato un precursore dei tempi e anche se capita di pagarne il prezzo, hai una storia, l’hai fatta, l’hai segnata: c’è qualcosa che ancora ti manca?
<<Se mi guardo indietro ho fatto delle scelte artistiche che dal punto di vista commerciale sono stati dei suicidi. Mentre gli altri cavalcavano l’onda della disco music, io ho cambiato radicalmente e mi sono allontanato, pensando che la gente mi avrebbe seguito. Dopo I like Chopin ho fatto Trotsky Burger, forse antesiniano della tecno. Poi, ho fatto un disco totalmente new age, poi nel 2008 con Virtual Love sono approdato al rock progressive, che consideravo un punto di partenza. Il mio progetto artistico aveva un’onestà intellettuale e volevo che la gente capisse cosa c’era dietro, ma più spesso ci si sofferma solo sulle cose che funzionano. Non so, magari per continuare a farmi del male, il prossimo disco potrei farlo in acustico, chitarra e voce>>.
 
Perché hai scelto solo oggi, ad esempio, di cantare in italiano. E perché scegliere la Callas come musa ispiratrice?
 
<<Mi ha sempre creato un po’ d’imbarazzo cantare in italiano. Avevo paura di essere un uovo Mal. Non mi sentivo all’altezza, per cui sono rimasto a coltivare il mio orticello, fino al giorno in cui mi sono imbattuto in un documentario su Maria Callas e ho avuto un flashback. Devi sapere che mi son sempre definito un chitarrista fallito e un cantante per caso: tecnicamente lontano dai miei idoli come chitarrista, comincio a studiare canto da questo brillante tenore di nome Alberto, innamoratissimo della Dea.  Le lezioni erano per metà sulla musica e per metà sui racconti di vita che legavano Alberto, appunto, a Maria Callas. Perché erano amici. Io mi annoiavo terribilmente ad ascoltare quelle storie, ma lui insisteva, cercando di spiegarmi l’anima della sua interpretazione. 
 
Lo persi di vista, fino al giorno in cui tornando in quel quartiere di Roma dove andavo a lezione dieci anni prima, negli anni ’90, trovai questo vecchio barbone seduto sul predellino di una roulotte, abbandonata come lui. Era Alberto, convinto che una sorta di macchinazione contro di lui, troppo bello per fare il tenore, gli avesse tolto il lavoro. Mi invitò a salire nella roulotte e con tenerezza gli chiesi come aveva fatto a ridursi così e come potesse sopravvivere in quelle condizioni, da solo; ma lui mi rispose che non era mai stato solo, indicando la gigantografia sbiadita della Callas che troneggiava, come dieci anni prima a casa sua, sul vetro della roulotte. 
Quando tornai il giorno dopo non c’erano più, né Alberto né la roulotte. E’ come se mi avessero aspettavo per anni solo per salutarmi. Ripresi in mano il testo di una canzone che avevo scritto e lo riadattai pensando proprio ad Alberto, che l’aveva amata fino alla fine>>.
Non valgono le musicassette, ma vorrei tanto sapere cosa vorresti indietro dagli anni ’80? 
 
<<L’italiano degli anni ‘80. Si sta andando verso una specie di cinismo, di distacco dalle cose profonde che danno senso alla nostra esistenza. Anche culturalmente. Vado in giro e ho l’impressione che ci siano più analfabeti e l’ignoranza mi spaventa, è pericolosa>>.
E dal presente cosa ti aspetti? Un riscatto, una conferma, un nuovo inizio?
<<Mi sto divertendo, la sto prendendo come una fase “simpatica” della vita. La gente ha voglia di spensieratezza e questo è un contributo. Uno dei compiti dell’essere artista, dovrebbe proprio essere quello di arricchire a livello intellettuale e di contenuti la vita delle persone. Nel mio piccolo, sto provando a farlo>>.
 
Quanto sei social, o ti spaventa?
 
<<Io sono molto social, ma con il giusto distacco. Non appartenendo alle grandi famiglie delle major, ho bisogno dei social, sono il vero megafono che possa permettermi di arrivare alla gente, ma poi vivo intensamente e profondamente le cose che faccio. La vita vera è fuori>>.

 
L’album è disponibile nella versione cd nei negozi tradizionali e sul sito dell’artista, in digitale e in una special edition in vinile colorato, numerata ed autografata. In copertina, l’idea originale di giocare con Gazebo ad “unire i puntini”, per scoprire Trinità dei Monti, epicentro della Dolce Vita.