Aemilia, pm: dai parenti le armi al clan

Le armi a disposizione del clan e il rifornimento lo facevano i parenti. "Per il tramite di Giuseppe Iaquinta e nella consapevolezza del figlio Vincenzo la consorteria dell’Emilia, che è un sodalizio armato, poteva avere immediata disponibilità di armi".

E’ un passaggio della requisitoria di questa mattina del Pm Beatrice Ronchi, pubblica accusa nel maxi processo contro la ‘ndrangheta Aemilia in corso a Reggio Emilia, che aggrava in particolare la posizione dell’ex campione del mondo di calcio, coinvolto nel processo per un reato in apparenza minore.

 
Vincenzo Iaquinta infatti ottiene il porto d’armi nel 2005, compra due pistole e rinnova la licenza per sette anni fino al 2012. Nel frattempo, dal 2002, a suo padre – Giuseppe – era stato fatto divieto dalla Prefettura di detenere armi nella propria abitazione. Così, quando le pistole intestate a Vincenzo vengono spostate a casa del padre, Iaquinta junior non lo denuncia e finisce tra gli imputati. Una vicenda che puo’ sembrare banale ma su cui Ronchi afferma: “Non e’ pari a zero il fatto che Giuseppe Iaquinta, esponente del sodalizio ‘ndranghetistico emiliano, abbia una sostanziale disponibilita’ di armi non essendo legittimato in alcun modo, perche’ anche il porto d’armi gli era stato ritirato”. Infatti “questo e’ un fatto di grande importanza e utilita’ per l’organizzazione, tanto e’ vero che i mafiosi cercano di ottenere il porto d’armi non solo per se’, ma anche per i loro parenti, dipendenti o factotum cosi’, se hanno problemi, possono tuttavia disporre ugualmente delle armi”.